Nel cuore degli USA, un territorio in cui la natura è padrona assoluta, in grado di offrire sensazioni estreme e incomparabili.
Viaggiando attraverso Utah, Nevada, Arizona e New Mexico, lo stupore legato alla visione dei paesaggi si unisce al senso di mistero che ancora avvolge la storia di quei territori; un passato divenuto mito, dove i pochi segni umani sono quelli incisi dalle antiche popolazioni indiane e dagli avventurosi protagonisti dell’epopea del West.
UNA CIVILTà MISTERIOSA
Tre secoli prima che le caravelle di Cristoforo Colombo approdassero all’isola che il navigatore battezzò San Salvador, le terre del Sud-Ovest erano abitate dagli Hohokam, dai Mogollon e dalle popolazioni che i Navajo, nella loro lingua, chiamano Anasazi, gli “antichi”.
Queste tribù avevano sviluppato nel corso del tempo una civiltà avanzata, di cui restano spettacolari vestigia tuttora visitabili, capostipiti di quella discendenza indiana che, insediatasi nella zona di Gila, in Arizona, abbandonò la pratica della caccia per dedicarsi in modo stabile all’agricoltura.
Il sofisticato sistema di irrigazione creato da quelle popolazioni sconosciute e gli insediamenti scavati nella roccia dagli Anasazi sono gli unici segni umani impressi su questo territorio nel corso dei millenni, fino all’arrivo dell’uomo bianco.
Perché qui anche la più ristretta visuale del paesaggio è stata modellata da due soli elementi primordiali: l’acqua e il vento.
UN PAESAGGIO SCOLPITO DALL'ACQUA
È proprio il lavoro dell’acqua attraverso i millenni il primo artefice della meraviglia più conosciuta di questo angolo del mondo, il Grand Canyon. Nell’altopiano all’estremo nord dell’Arizona, quasi al confine con lo Utah, il lento e incessante lavoro di erosione del fiume Colorado ha inciso una voragine netta e profonda che si svelerà all’improvviso ai vostri occhi, inaspettata e abbagliante nonostante le letture che avrete fatto in precedenza.
Fotografie, film, reportages, tutto quanto ha contribuito a creare nella vostra mente l’immagine del Grand Canyon in un lampo verrà azzerato e sostituito da una nuova e forte emozione.
Vi troverete spinti a camminare per ore sul ciglio di questa millenaria fenditura, a godere dei continui cambiamenti di scenario e di luce, e l’immensità si farà padrona dei vostri occhi e della vostra mente.
Chi ha un fisico allenato scenderà per i sentieri impervi che portano fino alle rive del fiume Colorado, 1500 metri più in basso, in un’impresa massacrante ma inebriante che dura dall’alba al tramonto.
Uomini di 25 mila anni fa
Prima di Hohokam, Mogollon e Anasazi, vivevano in questa terra popolazioni che hanno percorso tutti i gradini dell’evoluzione umana. 25 mila anni fa, la civiltà Sandia, che già utilizzava il giavellotto per cacciare; 10 mila anni dopo, la civiltà di Clovis, i cui ritrovamenti archeologici le attribuiscono tecniche venatorie molto sofisticate; quindi, tra il 9000 e il 7000 a.C. i Folsom, anello di passaggio verso civiltà più evolute in cui le popolazioni traevano il sostentamento dalla coltivazione dei campi.
MONUMENTI DI ROCCIA E VENTO
Trecento chilometri a est, a cavallo tra Arizona e Utah, e poco distante
dal punto in cui questi due stati si incontrano con il Colorado e il New Mexico, il vento ha dato la sua risposta all’acqua creando un paesaggio che non a caso è stato battezzato Monument
Valley.
Dal punto di vista della scenografia naturale, questo è il cuore vero
dell’America, immortalato in decine di film western.
Al contrario del Grand Canyon che, al suo apparire improvviso, sorprende lo spettatore, la visione della Monument Valley, pur nella grande emozione che riesce a trasmettere, infonde sicurezza e desiderio di avventura. Sarà forse dovuto al ricordo di qualche pellicola cinematografica particolarmente coinvolgente, ma l’arrivo in questa terra è vissuto come un ritorno a casa, un luogo che appartiene a ognuno come un pezzo del proprio passato.
Vi trovate in piena riserva Navajo, dove potete perdere ore nelle bottegucce indiane tra fibbie per cinturoni e raffinati monili creati in origine per i guerrieri.
Poi comincia la traversata della valle, alla velocità di un carro, perché i Navajo non hanno voluto che si asfaltasse nemmeno un metro della loro terra, sfilando tra le grandi sculture di roccia lavorata dal vento, ancora una volta inebriandosi di luci che trasformano il paesaggio a ogni minimo mutare dei raggi del sole. Godetevi il tramonto, programmate l’itinerario per essere lì in una notte di luna, fate uno sforzo e trovatevi tra questi monumenti della natura prima dell’alba.
Scattate qualche fotografia ma poi sforzatevi di lasciare la reflex nella borsa: tutto quello che sta intorno a voi è troppo bello per essere visto attraverso la mediazione di un obiettivo e impresso indelebilmente su una pellicola fotografica anziché nella vostra mente.
In questa ideale gara di abilità architettonica giocata dagli elementi naturali, basta spingersi a nord, nello Utah, per incontrare alcune opere d’arte dovute alla forza delle acque. La prima è il parco di Natural Bridges, 145 miglia a nord della Monument Valley, una concentrazione irripetibile di archi e ponti in roccia scavati nei millenni dal fiumiciattolo che lo attraversa. Proseguendo verso nord, il gioco si ripete con tutt’altri risultati (ma sempre straordinari), nei parchi di Canyonlands e di Arches.
Fantastici paesaggi, grande cinema
Non si contano i luoghi del Southwest diventati set cinematografici di successo. Poco a nord della Monument Valley, immortalata in C’era una volta il West di Sergio Leone, la citta di Moab è stata il set di decine di film, tra cui Ombre rosse di John Ford, Il massacro di Forte Apache e Il grande sentiero.
Ad Arches è stato girato Il figlio di Kociss. A Grafton, vicino a Zion, Paul Newman e Robert Redford hanno interpretato Butch Cassidy, mentre Ponderosa Ranch, sulle rive del lago Tahoe, è stato per anni il set della serie televisiva Bonanza. Ironia della sorte, a Yuma, città mito dell’epopea western, è toccato fornire lo scenario desertico delle peripezie arabe di Lawrence d’Arabia.
Bryce Canyon: una meraviglia emersa dal mare
Ancora nello Utah, verso il confine con l’Arizona, nei paesaggi maestosi del Bryce Canyon ammiriamo un’altra testimonianza di come il tempo abbia saputo concretizzare la sua potenza creativa.
Qui, dopo migliaia di anni e con la complicità prima del mare, che si è ritirato da queste terre scavando immensi solchi, e poi della pioggia combinata col vento, si è creato uno spettacolo unico al mondo: un altopiano circondato da una corona infinita di guglie e torri, i cui colori spaziano dal giallo più tenue al rosso più infuocato, attraverso tutta la gamma dei gialli, degli arancioni e dei rossi.
In teoria, ma solo in teoria, lo spettacolo pare ripetersi sempre uguale, ma non bisogna perdere l’occasione di percorrere a piedi il ciglio di tutto il canyon, scendendo anche lungo i sentieri che si avventurano a valle improvvisi, serpeggiando tra le stalagmiti di terra, i colonnati, gli anfiteatri, le acropoli formate dai contrasti tra i vari elementi naturali.
Centotrenta chilometri a sudovest di Bryce, quasi al confine con Nevada e Arizona, un affluente del Colorado ha creato Zion, un canyon caratterizzato da gole spesso impervie e impressionanti camminamenti tra laghetti e cascate; un’infinità di occasioni per buttarsi in acqua e farsi lambire dalla corrente.
Questa si fa irruente nella zona dei Narrows, dove il canyon è tanto stretto che gran parte del tragitto si percorre camminando dentro il letto del fiume, con i piedi nell’acqua e gli occhi rivolti al cielo.
La mano felice dell’uomo
Questo è il Southwest non toccato dall’uomo, che non sempre è intervenuto sull’habitat naturale con risultati negativi. Anzi, c’è un caso in cui il binomio uomo-natura è riuscito a dare vita a una delle meraviglie del mondo: Lake Powell è un imponente quanto spettacolare bacino artificiale creato nel 1963 dopo il completamento della maestosa diga di Glen Canyon sul fiume Colorado, 200 chilometri a nord del Grand Canyon.
Qui, la necessità di rifornire di luce elettrica città delle dimensioni di Las Vegas e Phoenix ha creato un paesaggio naturale dalla dimensione acquatica assolutamente unica, un canyon immenso da esplorare navigando, addentrandosi tra gole e fiordi di roccia rossa che al tramonto diventa di brace, fino ad arrivare alla base del Rainbow Bridge, il più alto arco naturale esistente sulla Terra, maestoso e colossale.
Dighe capolavoro
Già nel 1877, a nord di Yuma, la diga Laguna permise di utilizzare le enormi risorse idriche del fiume Colorado a supporto dell’agricoltura. Ma la grande spinta alla costruzione di dighe, culminata con due capolavori di ingegneria come la Hoover Dam nel 1935 e la Glen Canyon Dam nel 1963, fu data dalla fame di energia elettrica.
Attraverso questi impianti si rese possibile l’esplosione urbanistica di città come Las Vegas e Phoenix, così come il decollo dello sviluppo industriale del loro territorio.
Le mille luci di Las Vegas
Lake Powell è un prodotto dell’uomo, ma di questo ci si dimentica quasi subito appena scompare dalla visuale la sagoma curva della diga. E per trovare segni tangibili di presenza umana, qualunque sia la direzione che avete scelto per il vostro tour, dovete arrivare nelle grandi città, nelle capitali che, forse per contrasto con il territorio circostante, risultano a modo loro “esagerate” per la plateale dimensione urbana.
Spostandovi dallo stato dello Utah a quello del Nevada troverete lo stereotipo di ciò che di piacevolmente assurdo gli Stati Uniti propongono; parliamo di Las Vegas, la città del gioco sfrenato, delle luci artificiali abbaglianti e del kitsch più estremo.
Una piccola metropoli divenuta per antonomasia il parco divertimenti per adulti; i quattro isolati del Downtown Casino Center sono il luogo più illuminato del mondo e pare di vivere in un videogame che corre veloce tra tavoli di roulette e lunghe file di slot machine. La notte di Las Vegas è fatta naturalmente anche di spettacoli, soprattutto i cosiddetti headliner show, in cui spopolano personaggi come David Copperfield o Liza Minnelli.
Una perfetta macchina del business dove le emozioni corrono forti. Come quelle che si provano per esempio sulle montagne russe create all’esterno della Stratosphere Tower e sospese a 274 metri dal suolo; oppure da quelle create dal milione di dollari in contanti esposto tutti i giorni dalla casa da gioco Binion’s Horseshoe.
Salt Lake City, tra rigore e mondanità
All’apparente dissolutezza di Las Vegas risponde l’altrettanto apparente rigore morale di Salt Lake City, capitale della religione mormona; fondata nello stato di New York nel 1830, la chiesa fu via via scacciata ovunque tentasse di insediarsi, finché nel 1847 approdò sulle rive del Great Salt Lake, uno dei pochi angoli fertili di questa regione; qui poté finalmente applicare, senza le costrizioni esercitate abitualmente dalle altre comunità, le proprie regole di fede e di comportamento, che, tra l’altro, ammettevano la poligamia e condannavano l’attività mineraria.
Oggi quella dei Mormoni è senz’altro una delle chiese più ricche al mondo, motore di un fiorire di imprese industriali, commerciali e finanziarie; non è un caso che a lato del maestoso tempio in granito, riservato esclusivamente ai membri della chiesa, si veda ergersi l’imponente struttura del grattacielo, sede dell’amministrazione della chiesa mormona. La capitale dello Utah oggi sta cambiando, e sicuramente svecchiando, la propria immagine di città legata a rigide tradizioni; la vita mondana è rinata grazie anche al rilancio degli impianti sciistici situati a pochi chilometri dal centro, meta degli appassionati di tutto il mondo.
Il Grande Lago Salato
Il primo bianco che approdò sulle sue rive, nella prima metà dell’Ottocento, lo scambiò per l’Oceano Pacifico. E per tutto il secolo scorso rimase un luogo misterioso, circondato da inquietanti leggende di orrendi vortici che inghiottivano le navi e dove vivevano solo colonie di balene portate qui a riprodursi nientemeno che dall’Australia.
Largo 140 km e largo 80, il Great Salt Lake è quel che rimane di un bacino ben più grande che 18 mila anni fa ricopriva gran parte dello Utah occidentale, estendendosi fino al Nevada e all’Idaho. Grazie alla imponente riduzione delle sue acque, nel corso dei millenni la concentrazione salina è cresciuta a livelli paragonabili a quelli attuali del Mar Morto.
Il benessere di Phoenix
Se si parla di sport e mondanità, ma soprattutto di benessere fisico e relax, Phoenix, capitale dell’Arizona, è quanto di meglio si possa trovare negli Stati Uniti. Posta al centro della Valley of the Sun, è la meta invernale preferita da coloro che non amano la neve ma desiderano un clima caldo e asciutto.
Organizzata per non abbandonare nemmeno per un secondo i propri ospiti alla noia, può vantare più di 100 campi da golf nel circondario.
Phoenix deve probabilmente le sue fortune al fatto che l’intera Arizona, in virtù delle sue aree desertiche e desolate, fu trasformata in un immenso campo di addestramento militare; dopo l’intervento statunitense nella seconda guerra mondiale, registrò infatti una crescita economica inarrestabile, che si consolidò con la nascita di industrie ad alta tecnologia, votate a produzioni militari e civili.
Per chi ama lo shopping, il Metrocenter rappresenta oggi il più grande centro commerciale del Southwest.
La capitale del tempo libero
Vicinissima a Phoenix è Scottsdale, una delle mete turistiche più frequentate degli USA. Clienti privilegiati i pensionati con alti redditi.
La bellezza del clima e oculati piani di sviluppo ne hanno fatto la meta preferita di chi ha tanto tempo da dedicare al relax e qui, con oltre 6000 camere d'albergo, 2500 fra negozi, boutique e grandi magazzini, 100 gallerie d’arte, 15 campi da golf e una dozzina di mega-impianti di tennis, non si ha che l’imbarazzo della scelta.
La leggenda del West
Tra i due estremi, quello di una natura spavaldamente incontaminata e quello della civilizzazione delle grandi città, esiste un territorio piccolo se misurato in chilometri quadrati, ma immenso se considerato nelle sue valenze evocative: l’America del selvaggio West. Valutato su parametri storico-economici, il movimento di conquista delle terre dell’Ovest ha toccato solo marginalmente i quattro stati qui descritti.
Ma da un punto di vista culturale la conquista dei grandi spazi o la loro difesa, il sogno del viaggio verso le praterie, simbolo massimo di libertà interiore, hanno trovato in questi luoghi la loro più viva e concreta espressione.
L’epopea western si è fatta simbolo di un desiderio tutto americano di superare le proprie “non-radici” per mete ambiziose e mai definite.
Oggi è possibile incontrare i discendenti di coloro che furono i protagonisti della nascita di un mito; si può dialogare con essi nei tanti villaggi un tempo luoghi sacri dell’avventura. Probabilmente li vedremo sradicati da radici che erano profonde e che sono stati invitati a perdere per calarsi in un contesto ormai completamente occidentalizzato.
Ma l’importante è mettersi in viaggio come se fossimo uomini di cento o centocinquanta anni fa e perdersi nel rosso deserto nei pressi di Santa Fe nel New Mexico o passare da Tombstone in Arizona. Lo spirito di quel periodo tornerà vivo guardando le occhiate diffidenti della gente ferma a cenare in un locale, o nelle parole di qualche anziano che vi racconterà una vecchia leggenda.
L’importante è, come sempre, l’approccio libero a persone e luoghi, come pionieri alla ricerca del nostro tesoro. In fondo ci troviamo nei territori di Kit Carson, Pat Garrett e Wyatt Earp, protagonista della celebre sfida all’OK Corral.
Le città fantasma
Per i vecchi pionieri l’unica risorsa di un certo rilievo economico fu rappresentata dalle miniere. La scoperta di un giacimento aveva il potere di trasformare una landa desolata in un luogo brulicante di vita.
Con la stessa velocità con cui nascevano, queste città del sogno e della speranza venivano abbandonate; in tempi recenti è stato sufficiente scrollar loro di dosso un po’ della polvere accumulatasi in meno di un secolo per trasformarle in ghost town e riportarle agli onori della cronaca, mete di un turismo che ha bisogno anche di loro per capire le tante contraddizioni di questa terra.
L’esempio dei pochi che avevano visto cambiare il proprio destino da un giorno all’altro faceva da straordinario catalizzatore, capace di originare dal nulla, e in poche settimane, città in cui si contavano più saloon e bische che abitazioni civili. Qui, come avviene per le metropoli moderne mosse dal denaro, gli accadimenti si rincorrevano con velocità frenetica e tutto diventava esagerato; uomini che altrove sarebbero stati considerati dei furfantelli finivano per essere dipinti come gangster incalliti, degni anch’essi di entrare nel mito, oltre che nelle cronache.
Con la stessa velocità con cui nascevano, queste città del sogno e della speranza venivano abbandonate; in tempi recenti è stato sufficiente scrollar loro di dosso un po’ della polvere accumulatasi in meno di un secolo per trasformarle in ghost town e riportarle agli onori della cronaca, mete di un turismo che ha bisogno anche di loro per capire le tante contraddizioni di questa terra.
Una cultura ancora viva
Da spettatori lontani, che hanno conosciuto queste terre attraverso la mediazione dei film e dei fumetti, non possiamo allontanare le immagini del Far West da quelle degli indiani nativi e un semplice sguardo alle carte geografiche sembrerebbe confermare in maniera evidente la fondatezza di questa associazione d’idee.
In effetti, lo spazio dedicato alle riserve indiane nell’ambito di questi quattro stati sembra enorme; ma la dimensione geografica non deve ingannare: il territorio, per la maggior parte brullo, desertico e improduttivo, non è una conquista della nazione indiana ma un regalo non richiesto.
La tragica epopea del conflitto tra bianchi e indiani si è svolta prevalentemente altrove, nelle grandi pianure, dove le tribù erano fiere e combattive. Le zone semidesertiche tra le Montagne Rocciose e la Sierra Nevada, attraverso Idaho, Montana, Wyoming e Colorado, erano abitate da popolazioni deboli e primitive; quelle più a sud, identificabili negli attuali Nevada e New Mexico, avevano visto svilupparsi comunità pacifiche, con l’eccezione di Apache e Comanche, caratterizzate da un elevato livello di civiltà e dedite all’agricoltura e all’allevamento.
Non c’erano, obiettivamente, gli estremi per uno scontro frontale: mancava l’oggetto del contendere, come una prateria brulicante di mandrie o un territorio fertile adatto allo sfruttamento agricolo. Anzi, laddove la società indiana si era più evoluta socialmente, come nel New Mexico, la presenza dei bianchi è stata debole se non addirittura marginale; per questo uno degli elementi che rendono magica l’atmosfera del New Mexico, che non a caso è soprannominato Land of Enchantment, è proprio la presenza dei pueblos, antichi insediamenti degli indiani orgogliosi della propria identità e delle proprie tradizioni, in armonia con il mondo circostante.
È proprio questa atmosfera di fratellanza nella diversità che, alla fine degli anni ’70, ha convinto migliaia di new agers di tutto il Nordamerica a scegliere il New Mexico come nuova patria di adozione; un paese che oggi prospera su turismo e commercio legati a questa filosofia, con un territorio desertico e assolutamente magico, che rappresenta il luogo ideale per ospitare attività rituali e mistiche.
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