I primi visitatori estivi dell'isola su cui sorge Atlantic City furono gli Indiani Absegami della tribù Lenni Lenape. I primi colonizzatori del South Jersey, invece, la snobbarono e l'isola rimase per lungo tempo pressoché deserta. Essa era accessibile solo in barca, attraversando le sei miglia di baia e di acquitrini che la separano dalla terraferma. Larghe dune proteggevano le spiagge e l'isola era fittamente ricoperta di boschi.

Un medico locale, il Dr. Jonathan Pitney, ebbe l'idea di trasformare Absecon Island in un centro estivo di soggiorno e cura e trovò finanziatori che, nel 1852, gli permisero di realizzare il suo sogno battezzato, appunto, Atlantic City. Il 1⁰ luglio 1854 fu inaugurata la linea ferroviaria che congiungeva l'isola alla terraferma e la rendeva facilmente accessibile agli abitanti delle popolose città circostanti, attratti dalla prospettiva di una vacanza in riva al mare. La città si sviluppò rapidamente, organizzandosi per offrire ai turisti alloggio, pasti, divertimenti, spettacoli e passatempi adatti ad ogni età, gusto e livello di reddito. Dal 1880 al 1940, Atlantic City è stata la più grande meta turistica di tutti gli Usa e negli anni '20 non c'era spettacolo di Broadway che non debuttasse qui in anteprima.

Negli anni '30 la popolazione superò i 66 mila abitanti e nonostante i tempi fossero duri a causa della depressione economica, la gente continuò a frequentare le sue spiagge, forse nel tentativo di dimenticare i tanti guai della vita quotidiana. Negli anni '40, l'esercito americano utilizzo Atlantic City come centro di addestramento, requisendo alcuni tra i più grandi alberghi della Boardwalk, la via principale della città.

Negli anni '50, l'avvento dell'aereo come mezzo di trasporto impose le spiagge della Florida e dei Caraibi come nuova meta turistica e, inevitabilmente, iniziò il declino di Atlantic City che cominciò, lentamente, a spopolarsi.

Proprio nel tentativo di porre rimedio a questa situazione, nel 1976 il governo locale legalizzò il gioco d'azzardo, considerandolo l'unico strumento in grado di permettere la rinascita della città e rilanciare il turismo. Proprio in ossequio a questa esigenza primaria, il gioco fu regolamentato in modo ferreo ed i redditi fiscali che ne derivano furono finalizzati ai programmi di sostegno degli anziani e degli handicappati.

Si trattava, evidentemente di una scommessa fatta pressoché al buio, e nessuno poteva immaginare quali sarebbero stati i risultati. Il primo casinò fu inaugurato nel 1978, e dieci anni dopo erano già una dozzina.

Nel 1990 i visitatori anno superato i 30 milioni, con una impennata straordinaria nelle entrate fiscali. Quando, nel 1976, la cittadinanza aveva approvato il referendum relativo alla legalizzazione delle case da gioco, il valore totale degli immobili era valutato in 316 milioni di dollari. Dodici anni dopo era salito a oltre 6 miliardi di dollari e la città poteva finalmente tranquillizzarsi sul suo futuro, certa di essersi ritagliata uno spazio stabile in un mercato che sembrava totale esclusiva di Las Vegas. Con comprensibile orgoglio, Atlantic City si proclamò "Queen of the Coast", regina della costa atlantica, ed avviò un intenso programma di investimenti i cui effetti sono evidenti percorrendo la Borsdwalk, passeggiando per la Ocean One Shopping Mall, costruita dove un tempo era il Million Dollar Pier, oppure perdendosi nel gigantesco Atlantic City Convention Center.

LA RIVINCITA DELLE TRIBU INDIANE

Proprio nel momento in cui Atlantic City vedeva attuarsi il suo consolidamento come seconda capitale del gioco d'azzardo in America, il Presidente Ronald Reagan, firmando il Gaming Regulatory Act e permettendo alle tribù indiane l'apertura di case da gioco, in qualche modo restituì alla storia americana anche questo aspetto della vita sociale che, nel bene e nel male, fu uno dei protagonisti dell'espansione della nazione verso il West.

Consentire agli indiani di esercitare legalmente le attività connesse al gioco d'azzardo, infatti, voleva dire permettere di riaprire le case da gioco proprio in quei luoghi dove avevano operato per tutto l'Ottocento, ed in alcuni casi anche per buona parte del Novecento; ricollegare la vita e le atmosfere dei casinò ai luoghi in cui erano nati e recuperare quel pezzo di storia che nemmeno con grandi voli pindarici si può appiccicare credibilmente a Las Vegas e, tantomeno, ad Atlantic City.

In questa ottica è emblematica la storia di Deadwood, in South Dakota. La città era nata grazie alla scoperta dei giacimenti d'oro nelle Black Hills ed i personaggi pittoreschi del vecchio West passeggiavano per le sue strade, si ubriacavano nei saloon e scommettevano fortune piccole e grandi nelle sue case da gioco. Un campionario umano che avrebbe poi fornito infiniti spunti, caratteri e scenari per decine e decine di film western.

LA MANO DELL'UOMO  MORTO

Tutto cominciò nel 1876, quando la febbre dell'oro era al culmine, e in uno dei suoi locali fu giocata la più famosa partita di poker della storia americana. Protagonista principale ne fu Wild Bill Hickok, avvocato part time e giocatore a tempo pieno, che fu colpito alle spalle mentre teneva in mano un full di assi e otto, punteggio che da quel momento in poi entrò nella storia del poker come "la mano dell'uomo morto". Egli fu assassinato da un minatore di nome Jack McCall, ma sulle ragioni dell'omicidio si sono accavallate innumerevoli versioni, tuttora controverse.

In quello stesso anno, poche miglia a Nord-Ovest di Deadwood, le truppe de generale Custer furono annientate nella battaglia di Little Big Horn. La nascita di Deadwood e la sconfitta di Custer sono parte della stessa storia. Nel 1874, Custer aveva guidato una spedizione militare per realizzare una mappa dei territori indiani delle Black Hills (questa, almeno, era la motivazione ufficiale). Ma accadde che uno dei civili aggregati alla spedizione trovò l'oro a French Creek, in prossimità dell'attuale città di Custer. L'esercito cercò per qualche tempo di tenere lontano dalla zona la marea dei cercatori d'oro, ma l'anno successivo il governo cambiò politica e diede via libera ai minatori. Le tribù indiane, alle quali apparteneva il territorio anche in virtù di uno specifico trattato sottoscritto con il governo americano, si sentirono offese e scatenarono una dura rivolta, unendosi con altre tribù della pianura e mettendo in atto una serie di scorrerie che alla fine furono fatali per il Generale Custer, inviato da Washington a contrastarle.

Il campo minerario che fu all'origine di tutti questi guai ebbe vita breve. Nel marzo del 1876 arrivarono a Custer notizie sulla scoperta di un giacimento d'oro a Deadwood Gulch. In una sola notte, la popolazione di Custer si ridusse da 7 mila a 100 abitanti, mentre gli altri 6900 si trasferirono a Deadwood cui, prima della fine dell'estate, si aggiunsero altri 18 mila compagni di ventura e, tra essi, personaggi poi entrati nel mito del West, come la leggendaria Calamity Jane.

Allora come oggi, Main Street era il centro dei divertimenti di Deadwood. Il gioco d'azzardo, infatti, era perfettamente legale e continuò a rimanerlo fino al 1946, conferendo a Deadwood la reputazione di grande "città aperta". Quelle atmosfere cominciarono di nuovo a rivivere dopo il 1988, con l'apertura delle case da gioco gestite dalle tribù indiane, ma l'opera di ricostruzione di quel passato si concluse solo nel 1993, quando, limitatamente alla città di Deadwood, fu permessa la riapertura delle antiche case da gioco.

Il quadro della ricongiunzione del gioco d'azzardo americano con le sue radici storiche si completa con il fenomeno delle "riverboat", vere e proprie case da gioco galleggianti, talvolta in grado di navigare, spesso saldamente ancorate al molo, fluttuanti ma impossibilitate a muoversi.

Senza nemmeno esercitare grandi doti di perspicacia, si arriva subito a capire che quella delle riverboats è una colossale finzione, un ipocrita compromesso attuato dai singoli stati per salvaguardare, al tempo stesso, le ideali istanze della morale e quelle più materiali della borsa. Così accade che ci si possa trovare a bordo di grandi battelli saldamente ancorati a terra che effettuano tutte le operazioni necessarie per salpare, incluso levare le ancore ed emettere i canonici fischi delle sirene, senza poi muoversi di un millimetro. E ripetere le operazioni inverse al termine della crociera, la cui durata è rigidamente regolamentata dalla legislazione locale.

Se, però, si riesce a superare quel misto di fastidio e di esecrazione cui può indurre, soprattutto nei non americani, tutta la messa in scena, alla fine il meccanismo delle riverboats si rivela vincente ed è facile lasciarsi affascinare dall'atmosfera ottocentesca di questi battelli, talvolta vecchi di oltre un secolo, sempre arredati con dovizia di pezzi originali, coccolati e serviti con modi adeguati all'ambiente. Come se non bastasse, tutto ciò avviene lungo le rive di fiumi i cui stessi nomi scatenano l'emozione delle leggende del vecchio West - Mississippi, Missouri, Ohio - e sicuramente diventano elementi fondamentali nel decretare il successo di queste case da gioco galleggianti.

D'altra parte, gli insuccessi clamorosi dei pochi casinò costruiti negli stessi luoghi, ma sulla terra ferma, dimostrano che anche la pianta del gioco d'azzardo non può essere trapiantata così, come avesse stelo, foglie e fiori di plastica. Per prosperare ha bisogno di un clima adatto, di affondare le sue radici in un humus a lei congeniale, di calarsi in atmosfere che non possono essere decise unicamente a tavolino.

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