La cucina italiana, non é certo entrata in Nord America per la porta principale. Quando la cucina italiana ha mosso i suoi primi passi in quel paese, non c'erano direttori di grandi alberghi che ingaggiavano chef italiani per accrescere il tono dei loro banchetti, o imprenditori che pensavano di guadagnare soldi aprendo ristoranti italiani.
Anzi, a voler essere sinceri, forse i primi a fare cucina italiana in America, non sono nemmeno stati chef o professionisti in generale.
In mezzo alla gran massa di emigranti che attraversavano l'Oceano Atlantico in cerca di fortuna, c'era gente più sfortunata, che non riusciva nemmeno a trovare un lavoro e che si ingegnava a vivere risolvendo i problemi di quelli che, invece, un lavoro l'avevano trovato.
Per cui, dietro una prima linea di italiani che lavoravano nelle fabbriche e nei cantieri, c'era una
seconda linea che provvedeva ai loro bisogni: calzolai, barbieri, sarti. E per quelli che erano arrivati da soli e non avevano una famiglia che provvedesse a loro, bisognava anche cucinare. Così
nacquero le prime trattorie italiane, italiane per due ragioni fondamentali: una psicologica, perché oltre che luoghi di ristoro, erano prima di tutto luoghi di incontro, surrogato di una
famiglia che non c'era, per cui tutto, dall'arredo al linguaggio, alla cucina, doveva in qualche modo cercare di ricostruire quella casa di cui la trattoria era il sostituto.
L'altra, pratica, perché chi si metteva in queste imprese, mancando di professionalità in questo campo, era già tanto se riusciva a riprodurre vagamente i piatti ed i sapori di casa sua. Ovviamente, quando gli affari cominciavano ad andar meglio, si chiamavano rinforzi dall'Italia, arrivavano madri, zie e sorelle, loro davvero esperte cuoche, e la fama di alcune trattorie riusciva a superare il ristretto ambito della comunità italiana e a conquistare i primi clienti americani, affascinati da quei sapori assolutamente nuovi e straordinari.
I problemi nascono dopo. Non problemi economici, ma gastronomici, perché il successo commerciale produce guasti, soprattutto se tanti soldi arrivano nelle mani di chi ne ha sempre maneggiati pochi.
E, siccome il cliente ha sempre ragione, é proprio in questa fase che nascono le prime vistose distorsioni della cucina italiana in Nord America, quelle distorsioni contro cui ancora dobbiamo combattere e che hanno portato spesse volte i critici a incolpare quei primi ristoratori che, in fondo, erano anche essi vittime dell'incontro tra due mondi che entravano in contatto per la prima volta tra loro.
Le distorsioni di quella cucina, infatti, sono figlie dello scontro tra due stili di vita, il primo, quello italiano, basato essenzialmente sul concetto di qualità, ed il secondo, quello americano, basato sul concetto di quantità.
Secoli di convivenza con gli splendori dell'arte, della letteratura, della musica, dell'architettura, hanno sviluppato negli Italiani, anche in quelli meno acculturati, una notevole capacità di apprezzamento della qualità, in qualunque campo, anche in quello gastronomico.
Ed é per questo che il pasto italiano, in qualunque regione ed in qualunque epoca, é una sequenza di piccole portate, ognuna con sue peculiari caratteristiche qualitative, e non un enorme unico piatto, nel quale chi mangia può soddisfare tutte le sue esigenze quantitative di proteine, grassi, carboidrati, vitamine e minerali.
Per poter vendere cucina italiana agli Americani, i primi ristoratori italiani hanno dovuto aggiungere alla qualità la quantità, ovvero dare un riscontro obiettivo di valore secondo i parametri americani. Non hanno cambiato le ricette nella sostanza, ma le hanno modificate nei rapporti tra gli ingredienti e nell'aspetto esteriore.
Mediamente, le porzioni si sono ingigantite, e l'offerta del menù é stata ridotta a due portate, secondo l'uso americano: un appetizer, ed un main course, includendo negli item del main course anche la pasta, una enorme porzione di pasta, che nemmeno i carrettieri italiani dell'Ottocento si sarebbero sognati di mangiare.
In questo modo si spiega la nascita ed il successo di tanti piatti della cucina italiana in Nord America, piatti che affondano le loro radici nella più tradizionale cucina italiana e che si sono deformati in ossequio alle esigenze di una clientela che, con la forza del proprio denaro, voleva soddisfare la voglia di cibi diversi ma, contemporaneamente, anche le proprie cattive abitudini quotidiane.
A questo primo elemento di deformazione, se ne é aggiunto un altro, ancora più grave e che, curiosamente, é anche esso effetto di due contemporanei fattori positivi.
Il primo di questi due fattori positivi é che a partire dagli anni '60 l'Italia ha conosciuto una grande espansione economica che ha rallentato, fino a farla sparire del tutto, l'emigrazione degli Italiani all'estero.
Il secondo é che, proprio a partire dagli stessi anni, la ristorazione italiana all'estero si é sviluppata con un successo straordinario, diventando un business a tutti gli effetti, capace di attrarre investimenti considerevoli anche da parte di investitori che non hanno alcun rapporto con l'Italia. I ristoranti si sono moltiplicati numericamente, offrendo sempre più nuovi posti di lavoro: posti di lavoro che sarebbero disponibili in primo luogo per quegli italiani che avessero voglia di emigrare, ma che non ne hanno più bisogno.
La conseguenza di questo é che oggi, nelle cucine dei ristoranti italiani in Germania ed in Inghilterra, si parla prevalentemente arabo, ed in quelli del Nord America esclusivamente spagnolo.
E' ovvio che una cucina prodotta in queste condizioni, preparata quotidianamente da mani costrette ad impararla empiricamente senza alcuna scuola alle spalle, si ritrova in continuazione costretta a compromessi e tradimenti, dovuti di volta in volta a necessità, a ignoranza o a semplice speculazione affaristica.
Ora, siccome l'antica soluzione, ovvero quella di esportare chef dall'Italia, non é più proponibile (a meno che a ingaggiare gli chef italiani non siano pochi, grandi, ricchi e celebri ristoranti), l'unica soluzione per garantire un futuro alla cucina italiana nel mondo é insegnarla agli chef degli altri paesi, agli studenti delle scuole alberghiere americane, tedesche, giapponesi, ecc. ecc.
Ma come si fa ad insegnare all'estero la cucina italiana?
Semplificando, possiamo dire che vi sono tre metodi base che noi chiameremo:
1) il metodo "kamasutra"
2) il metodo "tutto mondo é paese"
3) il metodo "dimmi chi sei e ti dirò come mangi"
Il metodo "kamasutra" é il più istintivo, quello da cui parte chiunque, sia esso chef professionista o madre di famiglia, insegnante o scrittore gastronomico: é il metodo che pone al centro della gastronomia le ricette.
La filosofia di questo metodo é semplice: scrivere con la massima precisione ogni ricetta, specificare accuratamente gli ingredienti ed i loro quantitativi, gli strumenti di lavoro, il metodo e i tempi di cottura, possibilmente accompagnando queste istruzioni con immagini, sia delle varie fasi di lavorazione che del piatto finito.
Questo é un metodo molto efficace. Insegnare la cucina con questo metodo dà subito ottimi risultati e crea nell'allievo l'illusione di essersi impadronito facilmente di un nuovo bagaglio di conoscenze.
Quando questo metodo é applicato alla cucina italiana, però, ben presto si scopre che funziona solo in parte. La prima ragione é che, a differenza delle altre due grandi cucine mondiali, quella francese e quella cinese, la cucina italiana non é basata sulle ricette ma sulle materie prime.
Per rendersene conto basta aprire diversi ricettari italiani e mettere a confronto le ricette con lo stesso nome: dalla galantina di pollo al ragù, ai tortellini, ogni autore ne riporta una versione diversa, con differenze negli ingredienti, nelle procedure e nel modo di cuocere.
Inoltre, le nostre ricette sono piene di espressioni del tipo "a piacere", "eventualmente aggiungete...", "portate alla densità desiderata", "...quanto basta": il che vuol dire che le regole non sono mai ferree e che viene sempre lasciato molto spazio al gusto individuale.
Nonostante questo, dal Piemonte alla Sicilia, dalla Sardegna al Friuli, il risultato finale, ovvero quello che viene messo in tavola, é sempre, genuinamente "cucina italiana".
Il metodo "kamasutra" quindi, ha il limite di portare ad una cucina pietrificata, immutabile, perfetta solo se lo chef ha a disposizione tutti gli elementi che la compongono e gli strumenti necessari.
Se, però, solo uno di questi elementi viene a mancare (e chi ha esperienza di ristorazione sa quanto si viva nell'emergenza anche nelle cucine più organizzate!) non si riesce più ad ottenere il risultato giusto ed i piatti perdono la loro identità italiana.
Il metodo "tutto mondo é paese" é quello applicato spesso dai grandi chef ed esperti di cucina internazionale ed é una scorciatoia un po' presuntuosa per risolvere i problemi faticando poco e puntando tutto sull'aspetto esteriore dei piatti. In pratica consiste nel trovare parentele e similitudini tra i piatti della cucina italiana e quelli della "grande cucina" internazionale, bagaglio culturale di ogni professionista che si rispetti.
In base a questo metodo, ogni volta che si vuole realizzare un piatto italiano, si cerca la ricetta più simile e le si apportano delle piccole variazioni che permettano di spacciarla per italiana.
Una volta può essere una brandade che diventa un baccalà alla vicentina, un'altra volta é un coulis spacciato per un sugo di pomodoro per condire la pasta, oppure una bouillabesse che diventa un brodetto marchigiano o un caciucco alla livornese, o delle crepes che si trasformano in lasagne al forno.
Il metodo "dimmi chi sei e ti dirò come mangi" é il più difficile da praticare ma é anche l'unico che può dare veramente buoni risultati se applicato alla cucina italiana.
"Dimmi chi sei", vuol dire capire cosa c'é alle spalle di ogni piatto, di ogni ricetta, di ogni preparazione culinaria.
I piatti della cucina italiana non nascono mai da una invenzione individuale, dalla creatività di uno chef: sono sempre il frutto di una serie di combinazioni che coinvolgono un certo uso delle materie prime locali, consuetudini e le tradizioni, le condizioni economiche e commerciali.
Quando dietro ad una cucina c'é tutto questo, il modo migliore per impararla e farla propria é quello di studiare la sua storia, capire perché e come si sono sviluppate le sue materie prime, quali sono e come si sono evolute le abitudini alimentari della sua gente.
Solo in questo modo uno chef nato in una cultura diversa da quella italiana, abituato per tutta la sua vita a sapori diversi, potrà produrre professionalmente cucina italiana.
In un mondo in continua evoluzione, in cui i trasporti e le tecniche di conservazione ci permettono di disporre sempre degli ingredienti che vogliamo e nella loro migliore condizione, un corso di cucina non può proporsi come una costruzione immobile ed eterna, che rappresenta un mondo che é già superato un minuto dopo che abbiamo finito di descriverlo.
La cucina, qualunque cucina del mondo, é costantemente in via di cambiamento, e chi la insegna deve tenerne conto. Quindi, non si può insegnare oggi la cucina italiana di ieri: gli Italiani di oggi sono cambiati, vivono in modo diverso, parlano e si vestono in modo diverso, ma sono italiani oggi come 50 e 100 anni fa.
Sono "Italiani" perché anche questo loro nuovo modo di essere e di esprimersi é frutto di un susseguirsi secolare di sedimentazioni culturali che non sono state cancellate o buttate via, ma hanno prodotto, esse per prime, il cambiamento.
Parallelamente, la cucina italiana di oggi é diversa da quella di 50 e 100 anni fa pur rimanendo
"italiana". E anche in questo caso ciò é possibile perché essa affonda le sue radici nella nostra cultura, fatta più di sostanza (ovvero ingredienti e metodi) che di forma (ovvero
ricette).
Ma, per onestà, bisogna avvisare quelli che si troveranno ad imparare la cucina italiana
secondo queste linee guida, che correranno un grande rischio: ben difficilmente si limiteranno ad imparare la nostra cucina ma se ne innamoreranno perdutamente.
E questo finirà per cambiare la loro vita, non solo dal punto di vista professionale.
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