Il cacao è una pianta tipicamente tropicale originaria dell'America centro-meridionale, che raramente si sviluppa al di sopra del 20° parallelo, e richiede un clima caldo-umido. Al momento dell'arrivo di Colombo era già diffusa in larghe zone del continente.
La pianta è della famiglia delle Sterculiaceae, alta da 5 a 8 metri, dalla folta chioma, a foglie perenni, ovali.
I frutti sono bacche di forma oblunga e ovale, lunghe 15-20 cm., di 500-600 gr. di peso, che contengono circa 40-50 semi sovrapposti in cinque file longitudinali, piatti e tondeggianti.
Vi sono due varietà principali: la prima è quella pregiatissima del Venezuela (Cacao Criollo), la seconda è il cacao amaro o violetto (Cacao Calabacillo). Le varie altre specie coltivate derivano da incroci di queste due.
Gli indigeni precolombiani sapevano che questi alberi erano utili come cibo e come bevanda, particolarmente i Maya e gli Atzechi, che usavano i semi anche come mezzo di scambio. Questo è attestato da Cortes nella seconda delle sue relazioni-lettera inviate all'imperatore Carlo V tra il 1519 e il 1526. Scrive Cortes: ... il cacap (cacao) è un frutto simile alla mandorla, che essi (gli indigeni) vendono macinato, e l'hanno in tanto pregio che lo considerano moneta di scambio in tutta la regione e con esso si comprano le cose necessarie nei mercati e altrove.
Gli Atzechi usavano il cacao come bevanda, dopo aver sbattuto in acqua calda i semi tostati e averli aromatizzati con spezie e
vaniglia, addolcendola qualche volta con miele.
Il popolo, invece, la rendeva densa aggiungendo farina di granoturco, e piccante con pepe di caienna.
Così trattato il cacao prendeva il nome di "cioccolata" (etimologia: choco=cacao, latl=acqua)
In Messico i frutti del cacao erano tenuti in gran conto; avevano valore di scambio e su di essi era fondato un vero sistema monetario: il countle era equivalente a 40 frutti, lo xiquipil a 200 countle (cioe 8.000 frutti), il carga a 3 xiquipil.
La città di Tabasco versava all'imperatore Montezuma una tassa annua di 1 carga, cioè 3 xiquipil; in pratica 24.000 frutti, che assicuravano al re le sue indispensabili 30 tazze di cioccolata giornaliere e altre 2.000 da distribuire ai cortigiani.
Cristoforo Colombo si imbatté per la prima volta nei semi del cacao il 10 luglio 1502, durante il suo quarto viaggio e sembra che il 30 luglio successivo abbia avuto anche l'occasione di gustare la cioccolata, offertagli dagli indios, ma questo nuovo e curioso alimento giunse in Europa solo nel 1528, portato in Spagna dal Messico da Hernàn Cortes.
Quella nuova bevanda non incontrò subito il gusto degli spagnoli, ma Cortes la impose d'autorità: durante l'occupazione messicana si era accorto di quanto fosse energetico il cacao ed a tal proposito scrisse al suo imperatore Carlo V:... una tazza di questa preziosa bevanda mette un uomo in condizioni di sopportare bravamente un'intera giornata di marcia, senza prendere altri cibi.
Un eccezionale doping, quindi, per far lavorare di più. E da quell'anno in poi l'invio di semi di cacao dal Messico verso la Spagna è regolare e ininterrotto.
I tipi sono due: il socomasco, o reale (tuttora coltivato in Messico), soltanto per il re, cortigiani e guerrieri, e il platax, più scadente, per il popolo. Insieme ai semi Cortes invia in Spagna anche tutte le indicazioni necessarie per trasformarli in cioccolato.
La Chiesa sospettosa osteggia questo cibo d'oltremare, lo considera frivolo, contrario alle diete di quaresima o di magro in genere. Ma interviene Brancati, cardinale illuminato e goloso, che proclama la cioccolata una bevanda di prima necessità. A questo punto, con tanto di avvallo ecclesiastico, la cioccolata diventa in Spagna, come già in Messico, la bevanda nazionale.
L'esportazione del cacao in altri paesi è severamente proibita per molto tempo, ma i matrimoni delle principesse spagnole con nobili di altri paesi (il cacao fa parte del prezioso corredo della sposa), gli stessi monaci, accaniti consumatori di cioccolata, e i potenti di Spagna, in delegazione nelle varie corti europee, diffondono l'abitudine corroborante e energetica della cioccolata fra i nobili.
Il popolo più abbiente ne segue come al solito l'esempio.
Il cacao comincia a diventare una merce rara; ma contrabbandieri olandesi e inglesi, con poco rischio e molto guadagno, fanno viaggiare le loro navi cariche di semi di cacao, senza preoccuparsi delle franchigie.
Quando, nel 1728, Filippo V cede ad una compagnia internazionale il monopolio della vendita del cacao, questo è ormai conosciuto e consumato in tutta Europa.
Nel frattempo la coltivazione si è già diffusa nel Sud e nel Centro America, ad Haiti, Trinidad, dalla Martinica alla Giamaica fino alle Filippine: praticamente in tutte le regioni equatoriali.
In neanche duecento anni, il cioccolato aveva conquistato tutti i gusti, ma era sempre una ghiottoneria da ricchi, che lo usavano per la colazione del mattino, come è illustrato nei quadri d'epoca; il Parini lo consiglia al suo "giovin signore" appena desto, perché ritempri con il caldo brun cioccolate il delicato stomaco.
Troppa fiducia nella deliziosa bevanda però era mal riposta: il cioccolato, mangiato in abbondanza, causava naturalmente dei problemi di digestione: infatti il seme di cacao ha il 50% di grasso, che solo in un secondo tempo si riuscirà a separare dalla polvere. Nella lavorazione del cacao in polvere oggi il grasso viene rimosso, e se ne fa burro di cacao, usato per la preparazione di dolci o dello stesso cioccolato solido, per il quale invece ci vuole una ulteriore aggiunta di grasso: quindi lo sviluppo di entrambi i prodotti dipende dai metodi di estrazione del grasso dai frutti.
L'uso di presse a questo scopo è menzionato già dal 1753, ma solo nel 1828 van Hauten ebbe il permesso di usare presse nella produzione di cacao in polvere.
Questo fece sì che anche il burro di cacao fosse messo in commercio come prodotto separato e derivato, e quando se ne cominciarono a trovare grandi quantità sul mercato fu possibile mettere in commercio del cioccolato solido da mangiare.
Questo uso si diffuse largamente alla metà del 1800, anche perché le tasse di importazione erano diminuite, e si cominciò a usarlo anche per ricoprire e farcire dolci e biscotti, e confezionare gelati e pralines.
In Italia l'arrivo del cacao vanta ufficialmente una data di ingresso ed un autore: l'anno 1600 ed il fiorentino Francesco Carletti, che così scrive: ripigliamo porto in San Jonat distante da Lima 1600 miglia ...luogo dove sono case di spagnoli e dove cresce il cacao, frutto tanto celebre e di tanta importanza ... Questo frutto serve ancora di moneta ... ma il suo principale consumo è una bevanda che gli indiani chiamano cioccolatte, la quale si fa mescolando dette frutta, che sono grosse come ghiande, con acqua calda e zucchero, ma prima secche molto bene ed abbrustolite....
Forse per merito del Carletti, sembra che i primi produttori di cioccolata fossero fiorentini, e pare rifornissero a Parigi il cardinale Mazzarino.
Al di là della leggenda, il cacao in arrivò prima in quelle regioni maggiormente sotto l'influenza spagnola, quali il Vicereame di Milano e quello di Napoli.
Ma è il Piemonte la vera patria del nostro cioccolato: lo introduce il duca Emanuele Filiberto di Savoia, dopo la vittoria di San Quintino (1557) ed i droghieri torinesi danno vita alle prime fabbriche artigiane che incrementarono via via la loro importanza nell'economia cittadina fino ad essere considerate un polo industriale nevralgico, tale da giustificare l'istituzione di un regime di monopolio.
Il 9 ottobre 1678 il pastelliere torinese Giovanni Antonio Ari otteneva l'autorizzzazione a vendere in esclusiva la bavarese o cioccolatte in bevanda. Nel 1800 il cioccolato di Torino è considerato il migliore d'Europa ed é qui che nascono i primi cioccolatini moderni: si chiamano givù (overo cicche di sigaro) o diablotin (piccoli diavoli)
E' un torinese ad inventare la prima macchina idraulica per raffinare e miscelare la pasta di cacao e la società Caffarel la prima ad inserirla nel ciclo di produzione del cioccolato.
Mentre sulla spinta di questi successi si evolve e cresce tutta l'industria europea del settore, la fervida fantasia della capitale sabauda non riposa ed impastando il cacao con le nocciole delle langhe tostate e rese in polvere inventa un nuovo cioccolatino che godrà di un successo incondizionato in tutto il mondo: il giandujotto.
LA MADRE DI TUTTE LE RICETTE
La Bavarese é ormai considerato un dolce classico della cucina internazionale. In realtà, si tratta di una preparazione tipicamente torinese derivata da una elaborazione di pasticceria della classica "cioccolata calda" che si consumava nei caffé e che in dialetto piemontese veniva chiamata bevaréisa, ovvero "sostanza bevibile", "cosa da bere", nome precedentemente utilizzato anche per l'infuso caldo di the allo sciroppo di capelvenere.
Di qui il nome di tutta una famiglia di dessert della famiglia dei budini (alle fragole, al limone, alla vaniglia, ecc.) che nulla hanno da spartire con pretese origini dalla regione tedesca della Baviera.
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