In architettura, come nel design e nella moda, si fa un gran parlare di due opposte tendenze: il barocco e l’understatement. In sostanza, si fronteggiano due contrastanti modi di vedere le cose, il primo votato all’esaltazione degli aspetti esteriori, spesso fini a se stessi e fuorvianti rispetto alla funzione dell’oggetto cui vengono applicati, ed il secondo rispettoso delle finalità pratiche per cui l’oggetto è stato creato, pronto addirittura a mortificarne l’estetica se una sua qualsivoglia gradevolezza dovesse limitarne la funzionalità.
Curiosamente, trasferendo i termini di questo dibattito nel mondo del vino, scopriamo che, oltre ad essere pertinente, l’argomento ci riserva non poche sorprese. Quello che cambia, sono i parametri temporali e l’assoluta non contemporaneità delle tendenze.
Nella sua sostanza, infatti, il vino è stato per millenni un prodotto essenziale, spoglio, che da una parte era molto apprezzato per la sua sostanza, l’alcol, che interagiva fortemente con l’organismo del bevitore, mentre dall’altra offriva al sistema percettivo una gamma ristretta di stimoli sia olfattivi che visivi, che gustativi.
NETTARE, AMBROSIA E LICORE
Non a caso, scorrendo le pagine degli antichi testi in cui se ne fa menzione, le lodi si riferiscono sempre e solamente ad una sua caratteristica, la dolcezza, che lo fa descrivere, di volta in volta, come nettare, ambrosia o licore. Fino alle soglie del ‘900, insomma, al vino si chiedeva molto poco: tenore alcolico e “dolcezza”. E la copiosa presenza dei due determinava la qualità.
Nonostante questa sua strutturale semplicità, il vino ha attraversato i millenni come elemento mitico, debordante di valori simbolici e, per questo, sempre al centro degli eventi cruciali della storia e della cultura. Tutto questo non è dovuto a quel mix di sensazioni, profumi e sapori che mandano in visibilio noi degustatori contemporanei, ma unicamente al suo contenuto alcolico. Il vino è diventato mito non per quel che era ma per quel che scatenava in chi lo beveva, ovvero per l’allegria che induceva, la spinta alla socializzazione, l’allentamento dei freni inibitori, e via via avanti fino all’ebbrezza ed all’oblio indotto dall’ubriachezza.
CHE SIA DOLCE E CAPACE DI INEBRIARE
D’altra parte, complici le scarse conoscenze che hanno accompagnato i viticoltori per millenni, tutti gli sforzi sono sempre stati tesi ad ottenere un vino caratterizzato dal maggior grado alcolico possibile. Fattore che, con il tempo, si è addirittura istituzionalizzato, diventando un parametro obiettivo di valore (spesso scambiato per “qualità”) cui ancorare i prezzi, i dazi, le accise e le tasse.
Non avendo strumenti per intervenire sul profilo sostanziale del vino, i nostri antenati si sono sbizzarriti nel circondarlo di elementi esteriori che ne trasmettessero comunque il valore. Ecco quindi che quando era di pregio (ovvero ricco in alcol e zuccheri) lo conservavano in anfore decorate, lo servivano versandolo da brocche finemente cesellate, lo bevevano sorbendolo da coppe preziose, talvolta addirittura d’oro.
Dalla fine del ‘600 in poi, quando hanno cominciato a circolare le prime bottiglie, e con esse sono nate le etichette, è stato tutto un rincorrersi di fregi, cornici, svolazzi, sigilli e stemmi, che hanno dato solo apparentemente un aspetto baroccheggiante ad un prodotto che continuava ad essere, nella sostanza, semplice e funzionale.
Le cose cominciano a cambiare solo all’inizio degli anni ’60, quando la tecnica viticola ed enologica ha innescato un processo di rinnovamento che ha coinvolto tecnici, produttori e consumatori. Le cronache del primo isolato cronista di quei tempi, Luigi Veronelli, cominciano a rendere conto di qualcos’altro che non sia pienezza, potenza e dolcezza: si isolano profumi e sapori, li si confronta, se ne valuta l’insieme introducendo le categorie dell’armonia e dell’equilibrio. A partire da quegli anni, e per la prima volta nella sua storia, il vino comincia ad essere giudicato per le sensazioni che riesce a dare mentre lo si beve, invece che dopo averlo bevuto.
E ARRIVÒ IL TEMPO DELLE EMOZIONI
Al diffondersi di questa nuova sensibilità, si affianca una prorompente accelerazione della ricerca ed i produttori si ritrovano a disporre, nella vigna come in cantina, di conoscenze e strumenti sofisticatissimi che permettono loro di piegare una materia così “difficile” ai propri voleri, di plasmarla secondo un progetto precostituito, di ottenere “ïl vino che hanno in mente”. È una sorta di rivoluzione copernicana, un momento magico in cui chi fa il vino ha quasi la sensazione di essere onnipotente ed è spinto a lanciarsi in progetti inimmaginabili solo pochi decenni prima. È come se degli scalpellini, all’improvviso, si fossero trovati tra le mani dei ceselli laser con i quali poter intervenire a loro piacimento su pietre e metalli. Eccoli, quindi, intenti ad operare, prima in vigna e poi in cantina, per gestire lo sviluppo dei polifenoli, i livelli di acidità, la concentrazione zuccherina, l’equilibrio dei tannini, lo spettro dei profumi, l’intensità dei colori.
I risultati più eclatanti di questa nuova tendenza li ritroviamo oggi nei grandi vini rossi, veri concentrati di sensazioni, opulenti e complessi, brillanti alla vista e ridondanti al naso e al palato, potenti ma al tempo stesso eleganti, ricchi ma di una ricchezza che senza pudori deborda nel superfluo. Barocchi insomma.
L’ETERNA LOTTA TRA FORMA E SOSTANZA
Davanti a questa esplosione del barocco, ancora una volta, chi rimane spiazzato è il consumatore, poco pronto a percepire tanta dovizia di sensazioni.
Pensiamoci bene. Se due persone ugualmente miopi, una fornita di occhiali ed una senza, entrano in una chiesa romanica, tanto l’una che l’altra hanno la possibilità di godere della preziosità architettonica di quella struttura, povera di decorazioni e ricca di elementi che sono al tempo stesso formali e strutturali.
Se le stesse due persone entrano in una chiesa barocca, quella senza occhiali sarà condannata ad una esperienza sensoriale decisamente più misera, incapace com’è di percepire le mille sottigliezze che arricchiscono ogni particolare, la sovrabbondanza di decorazioni che ammanta tanto gli elementi formali che quelli strutturali.
Il consumatore odierno di vini di qualità è più o meno nella situazione del miope in una chiesa barocca: ha tanto da percepire
ma gli mancano gli occhiali. Per fortuna lo ha capito e non è un caso che, mai come in questi tempi, i corsi per sommelier ed i tanti altri organizzati in giro per l’Italia, vengono presi
d’assalto da appassionati di tutte le età. E questo ci fa bene sperare per il futuro.