LA BORGHESIA ENOLOGICA AL POTERE

La parola “rivoluzione” è un termine molto abusato, utilizzando il quale si tende ad ammantare di storicità episodi sporadici, quali rivolte, ribellioni, colpi di stato, lotte per il potere che hanno lasciato il segno più nella fantasia delle persone che nelle società in cui si sono verificati.
I grandi cambiamenti, nella storia dell’umanità, sono sempre stati frutto di un lento processo, spesso culminato nello scoccare di una scintilla di matrice sociale, politica, filosofica, scientifica, bellica. Solo in due casi è corretto l’utilizzo del termine, ovvero, per la Rivoluzione Francese e per la Rivoluzione Russa. E in entrambi i casi la data in cui vengono celebrate non è quella d’inizio bensì la data in cui la fase di trasformazione è giunta ad un punto di svolta, imprimendo agli eventi una fulminea accelerazione a scapito di coloro che quel processo evolutivo non volevano accettare e, anzi, contrastavano con tutte le proprie forze.

Il 14 Luglio 1789 (memorizzate: 7, 8 e 9) è la data in cui si celebra la Rivoluzione Francese, ovvero il compimento della transizione dalla plurisecolare società “feudale” alla nuova società “borghese” con lo spostamento del potere economico dalle mani di chi da secoli viveva di rendite parassitarie, senza produrre nulla di nuovo, a quelle di chi, partendo da zero e grazie solo al proprio ingegno, stava creando innovazione e nuove fortune, ben più grandi e penetranti. Il “Secolo dei Lumi”, insomma, aveva prodotto quella rivoluzione sostanziale cui mancava solo il suggello di una parallela rivoluzione istituzionale: il convergere tra il nuovo potere economico ed un nuovo potere politico.
Qualcosa di simile è accaduto nel mondo del vino italiano nel defluire degli anni ’70, ’80 e ’90 (di nuovo la sequenza 7, 8 e 9). Se mettiamo a confronto il primo Catalogo dei Vini d’Italia di Luigi Veronelli (1969) con questa edizione di Bibenda scopriamo che le pagine di allora erano popolate prevalentemente da vini prodotti da nobili signori e da coloro che si aggiravano nelle loro corti: poeti, musici, giullari, pittori, sognatori, qualche giurista, un notaio, due o tre farmacisti e qualche geniale alchimista.
Allora, chi raccoglieva l’uva la consegnava al “signore”; se era poca, produceva in proprio il vino sufficiente a soddisfare le esigenze della famiglia; se i quantitativi erano più consistenti, la conferiva a quella nuova entità, per certi versi miracolosa, chiamata “cantina sociale”.
Nelle cantine del “signore” dominava la figura del cantiniere, uomo di lunga esperienza abituato da una vita a confrontarsi con un’unica realtà, affrontando un anno dopo l’altro sempre gli stessi vitigni, gli stessi terreni, lo stesso microclima, con l’unica variabile delle bizze metereologiche dell’alternarsi delle stagioni.
Nella cantina del contadino, invece, imperava la tecnologia del “mi babbo” (che era la stessa del “babbo del mi babbo”) con risultati spesso sconsolanti. Ma quello c’era e quello si beveva.

Tra i tini della cantina sociale, invece, si aggirava un nuovo personaggio, l’enotecnico (allora l’enologo si chiamava così) che riusciva a compiere il miracolo di trasformare l’accozzaglia di uve dei conferitori in qualcosa di “buono” (anche se, in realtà era spesso solo meno cattivo e, raramente, “piacevole”).
Tutto questo dava luogo a tre distinti mercati, quello di eccellenza (i vini dei signori), quello dell’autoconsumo (i vini dei contadini) e quello di massa (i vini delle cantine sociali).
Inevitabile che, con lo sviluppo delle nuove tecnologie, l’accelerazione nella circolazione delle informazioni e l’evoluzione del mercato, il tarlo dell’orgoglio del proprio prodotto (fatto o sognato, non importa) cominciasse ad allignare anche tra i più umili vigneti. In questo processo, un ruolo determinante è stato giocato dei “venditori” delle aziende che producevano macchinari enologici, cui andrebbe finalmente riconosciuto il merito di essere stati i veri protagonisti dell’alfabetizzazione enologica italiana.
Così, con lo stesso spirito con cui i borghesi francesi del Settecento si lanciavano nell’invenzione di macchinari, tecniche e nuovi prodotti, i vignaiuoli italiani hanno dato il via ad una vera e grande rivoluzione, lavorando in proprio le uve e accompagnando personalmente tutto il processo fino all’imbottigliamento e alla vendita, sventolando come una bandiera l’etichetta su cui campeggiava il loro nome.
E, contrariamente ai rivoluzionari francesi che, da “borghesi” quali erano, si auto-elevavano al rango di “cittadini”, molti rappresentanti illuminati della nostra borghesia novecentesca hanno orgogliosamente lasciato i borghi e le città per farsi contadini.
Questo ha determinato un rinnovamento epocale della nostra viticoltura che, soprattutto in termini qualitativi, in pochi decenni ha compiuto passi da gigante, tutti testimoniati dalle ultime edizioni di Bibenda e, soprattutto, da quella appena varata, cui l’appellativo “2024” sta sicuramente stretto perché, come si direbbe al bar o all’osteria, siamo certi che nella prossima primavera, quando saranno rilasciate le nuove annate, “ne vedremo delle belle"

Ovviamente, come avvenne nella Francia post rivoluzione, alcune tracce (o vessilli) del passato feudale ancora riemergono tra le pieghe della viticoltura borghese: basta leggere le etichette dei vini recensiti in questa nostra edizione di Bibenda e ci si accorge che termini quali Castello, Rocca, Torre, Feudo, Villa, Tenuta, Chiesa, Abazia, Don e Donna, si presentano e ripresentano con una certa frequenza, spesso accompagnati da inequivocabili segni grafici quali corone, insegne araldiche, sigilli, gonfaloni, aquile e grifoni. E questo accade anche se i proprietari di quelle aziende vinicole sono industriali del mobile o del tondino, costruttori, avvocati, banchieri, stilisti, attori, politici o giornalisti di grido.
Ma, al di là delle insegne, la rassicurante sostanza è che, proprio nel defluire degli anni ’70, ’80 e ’90, la borghesia enologica ha posto le basi per una presa del potere che, alla luce degli assaggi effettuati per la nostra edizione 2024, può dirsi compiuta.
Certo, c’è voluto un po’ ma, si sa, il mondo del vino è lento e l’effetto dei cambiamenti non si manifesta con la stessa rapidità di una lama di ghigliottina che cala dall’alto.