Sarà che la spina dorsale delle vendite evidenzia un mercato primitivo in cui prevalgono i consumi simbolici (ovvero vini che esprimono lo status di chi li beve e li offre) sugli scaffali, nonostante i consumi siano in crescita, appaiono pochi vini rosati. E se questo, in generale,  non crea problemi alla maggior parte della clientela, penalizza certamente quelli che “sarebbero” tendenzialmente dei consumatori di vini rosati. Se quelli in circolazione fossero davvero “rosati”.

Il problema è che il mercato è inondato di falsi vini rosati, prevalentemente basi bianche colorate con aggiunte ben calibrate di vino rosso.

In realtà, il vino rosato dovrebbe essere il risultato di una vinificazione “in rosa”, ovvero svinando il mosto di uve rosse prima che la buccia ceda una quantità di materia colorante che vada oltre la tonalità del rosa. In questo modo si ottiene un vino fresco ma con un minimo di corposità che lo pone a metà strada tra i vini bianchi e quelli rossi.
Ma c’è un guaio: fatto in questo modo, la tonalità di rosa non è costante e cambia da un’annata all’altra ed anche da una partita all’altra. Ed il consumatore, quando si appassiona ad un prodotto, lo vuole sempre uguale a se stesso. Per cui il modo più semplice per ottenere un rosato dalla colorazione costante è partire da una tabula rasa (un bianco paglierino) e aggiungere la giusta dose di vino rosso finché il cromatografo dice: Ok, il rosa è giusto!

Quindi, chi ama i vini veri, berrebbe volentieri rosati se non fossero vini bianchi vestiti di rosa.

 

Ma ci sono altri due modi per ottenere vini rosati.
Uno, praticato comunemente in molte cantine di Bordeaux: quando entrano in produzione i vigneti appena impiantati, l’uva non ha ancora le caratteristiche per ottenere gli standard richiesti per i grandi vini di quel territorio. Per cui si ricorre alla tecnica del “salasso”: quando il mosto è nei tini di fermentazione ed il cappello (la massa delle bucce) galleggia nella parte alta, prima di procedere al rimontaggio, da sotto si estrae una quantità variante dal 20 al 30% della massa permettendo al restante 70/80% di macerare a contatto con una quantità di bucce ben maggiore. Ed il liquido che si ricava da questo salasso è un vino rosato a tutti gli effetti, discontinuo nel colore da annata ad annata, da partita a partita e da tino a tino. Rosati straordinari per un mercato locale di appassionati segugi di anomalie enologiche.

 

La terza via è la più truffaldina e, ahimé, riguarda prevalentemente gli Champagne rosé di fascia alta. Siccome il consumatore di Champagne rosé si colloca più o meno nella stessa categoria dei consumatori di Blanc de Blancs, ovvero i bevitori di fuffa travestita da vino, i marpioni top prendono belle partite di mosto da uve bianche (Chardonnay) e le mettono a fermentare sospendendo nei tini grappoli interi di uve rosse (prevalentemente Pinot Meunier), lasciando macerare finché hanno ceduto al mosto bianco la voluta quantità di materia colorante.
In gergo tecnico la macerazione a freddo si chiama “tintura” e mai termine fu più calzante per un’operazione come questa.