Abbiamo molti modi di recepire la realtà che ci circonda. Talvolta il parametro guida è la luce, oppure il colore, il movimento, i suoni. Quando classifichiamo ciò che ci circonda in relazione ai volumi, lo percepiamo come piatto (le pianure), spigoloso (le montagne) accidentato (il susseguirsi di superfici non coerenti). A questi si aggiungono volumi che inducono sensazioni di particolare gradevolezza: quelli convessi, come le colline, e quelli concavi, come le vallate.

Nella quasi totalità dei casi il punto di vista è uno solo ma vi sono eccezioni prevalentemente opera dell’uomo. Le cupole delle chiese, delle moschee, delle basiliche romane e, in tempi più recenti, i palazzi dello sport, sono realtà che possono essere recepite al tempo stesso come concave e convesse. Dall’esterno si distinguono da tutti gli altri manufatti, umani e naturali, proprio per la loro convessità e questo li rende decisamente attraenti.

Quando li penetriamo ci affascinano invece proprio per questa loro doppiezza, il divenire concavi al solo passaggio di una porta. Pensiamo per un attimo alla cupola di San Pietro che domina i paesaggi di Roma, qualunque sia il punto di vista, e li carica di significati. E poi immaginiamo di ammirarla dall’interno dove ai significati della convessità si sostituisce la ridondanza di contenuti delle sue superfici concave.

DUE PUNTI DI VISTA COMPLEMENTARI

Se ci pensiamo attentamente, il mondo del vino, e qui risiede una delle componenti fondamentali del suo fascino, è un alternarsi continuo di concavo e convesso: è convesso quando lo cerchiamo, lo scegliamo, lo acquistiamo (anfora, botte, damigiana, fiasco, bottiglia, bicchiere, sono tutti oggetti convessi), ovvero quando analizziamo e cerchiamo di interpretare i significati, ed è concavo quando lo beviamo, perché attraverso l’atto del bere varchiamo quella porta ideale che divide il convesso dal concavo, cambiamo punto di vista e ci addentriamo nella realtà dei suoi contenuti che, ahimé, non sempre sono coerenti con i significati che avevamo percepito nell’atto della visione esterna.

 

Il bravo degustatore, in fondo, è colui che sa calarsi in modo totale nel mondo concavo del vino tenendo a bada (annullare è impossibile) le suggestioni provenienti dalla parte convessa (denominazione, tipologia, vitigno, vigneto, produttore, marca, giudizi degli esperti), tutte finalizzate a promettergli e a fargli “pregustare” l’eccellenza.

 

Il “bravo degustatore” spende il suo tempo facendo la spola tra questi due mondi del vino che, volenti o nolenti, sono in stretta relazione e si condizionano a vicenda, talvolta positivamente, spesso con effetti negativi. E nei suoi giudizi cerca di privilegiare sempre il punto di vista concavo, la sostanza dei contenuti piuttosto che l’aleatorietà dei significati.

Se fa bene questo lavoro, per certi versi ciclopico e immane, si ritrova periodicamente tra le mani elementi sufficienti per delineare una sorta di fermo immagine del mondo del vino e azzardare qualche previsione per il futuro, almeno in termini di tendenze.

LO YIN E LO YANG DEL MONDO DEL VINO

 

In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un grande fervore nella parte convessa della bottiglia, originato, in primo luogo, dall’entrata in vigore della nuova legislazione europea, destinata a far piazza pulita di sigle rassicuranti (e storiche) come Doc e Docg per sostituirle con la più banale Dop, che già attribuisce quarti di nobiltà a caciotte, salsicce, cipolle e conserve.

Queste leggi, alla cui redazione il contributo del nostro paese è stato del tutto marginale (come al solito la subiamo e non ci siamo nemmeno organizzati per tempo per ottimizzarne i possibili effetti positivi e minimizzarne i tanti negativi), avrà, tra i tanti – buoni o cattivi: staremo a vedere - un effetto dirompente proprio nella redazione delle etichette prossime venture, cioè in quel concentrato di messaggi confusi che già oggi riesce a disorientare anche il consumatore più attento.

 

Non è certo casuale che negli ultimi anni si sia ribaltato il rapporto tra etichetta e retro etichetta: i produttori più intelligenti hanno deciso di veicolare il loro messaggio principale, ovvero quello che contiene i pochi elementi che qualificano il proprio prodotto e che determinano le scelte del consumatore, attraverso quella che formalmente e legalmente è la controetichetta, confinando tutte le informazioni di legge, con il ridicolo corollario di dimensioni minime e massime, proporzioni e sigle misteriose, nell’etichetta che, rimpinzata com’è di dati, finisce per apparire al consumatore come un qualcosa assimilabile all’inevitabile “bugiardino” ficcato a forza all’interno di ogni confezione di medicinali.

 

In verità, il timore (o la certezza?) è che questo confuso coacervo di regole sull’etichettatura dei vini altro non sia che il risultato di concessioni, privilegi e colpi di mano di cui beneficiano le nazioni comunitariamente più attive (e l’Italia non è tra queste) e le lobby industriali che del vino hanno solo l’obsoleta visione di una sorta di cavallo di Troia per vendere l’alcol che contiene, visione che, a torto, finisce per collocarlo tra i prodotti borderline, in bilico tra il lecito e l’illecito, il piacevole ed il pericoloso, il legale e l’illegale.

E queste considerazioni ci portano inevitabilmente ad occuparci di un altro argomento che, negli ultimi anni, ha agitato non poco la parte convessa della bottiglia: le restrizioni al consumo di bevande alcoliche messe in atto, progettate o minacciate dai vari governi locali, regionali, nazionali e continentali.

PERDERSI IN UN BICCHIERE. MA NON DI VINO.

Tutti sanno benissimo che a monte degli incidenti stradali ben raramente c’è una eccessiva assunzione di vino, che i giovani approdano allo sballo etilico attraverso misture in cui nemmeno una goccia ha l’uva tra i suoi ascendenti. Eppure, se si deve corredare con una fotografia o con un filmato un pezzo sull’argomento, fa sempre capolino la bottiglia di vino, il calice da degustazione, il tappo a fungo dello spumante. Proliferano così anatemi al grido di “tolleranza zero”, anatemi che nemmeno sfiorano quelli che si fanno di coca(ina) e di misture da discoteca e che, invece, preoccupano seriamente coloro che bevono consapevolmente. Li preoccupano perché proprio la loro inclinazione (o educazione) verso consumi di qualità non svanisce nel momento stesso in cui il vino dalla bottiglia viene versato nel bicchiere, ma li accompagna nel momento della degustazione, dell’abbinamento e della metabolizzazione.

Una persona che “sa” bere ben difficilmente torna a consumare un vino che gli procura cerchio alla testa, che fa prevalere la sua componente alcolica su tutte le altre, che gli fa pagare il piacere del bere con un successivo appesantimento, sia fisico che mentale.

DALLE BOLLICINE AI PALLONCINI

 

Ebbene, la prima vittima di questo clima di terrore antialcolico è proprio questa élite di consumatori. Non tanto perché vengono beccati e multati a suon di soffi nel palloncino, ma perché, proprio in quanto persone consapevoli, per primi si sono posti il problema di queste nuove regolamentazioni e per primi hanno iniziato a comportarsi come se la caccia alle streghe fosse già in atto e non solo minacciata.

Ecco così che hanno cominciato a modificare le proprie abitudini scegliendo ristoranti collocati in luoghi che non li costringano a lunghi percorsi di ritorno in auto; limitandosi nel consumo mentre sono a tavola, rinunciando magari allo spumante come aperitivo e al calice di vino dolce per accompagnare il dessert. Mortificando, insomma, la piacevolezza del loro pasto per non correre il rischio di superare di qualche millesimo quella soglia alcolica che fa la differenza tra la persona per bene ed il pirata della strada. Ed è così che la superficialità dei media pompa e cerca di imporre la figura triste dell’astemio volontario, il martire che non beve per portare a casa quei criminali che si sono ingozzati di Champagne, Brunello, Amarone e Sauternes. Quell’astemio volontario nemmeno immaginabile, uno ogni cinque, tra gli amplificatori a manetta dei rave party, nei desolanti bar delle periferie dove si ritrovano la sera gli extracomunitari o le panchine dei giardinetti dove fiumi di vino in brick da 60 centesimi al litro forniscono ai clandestini l’illusione di una vita che valga la pena di essere vissuta.

 

CAMBIANO LE POZIONI MALEFICHE MA LE STREGHE RESTANO

E pensare che basterebbe guardare un attimo alla storia per rendesi conto che le cacce alle streghe tutto hanno ottenuto tranne far fuori le streghe. E che i problemi determinati da comportamenti umani sbagliati sono sempre stati risolti con la diffusione della conoscenza, della cultura, della consapevolezza.

 

Grande movimento, quindi, nella parte convessa della bottiglia. Ma, degustazione dopo degustazione, possiamo affermare che anche nella parte concava, seppur più sommessamente, qualcosa sta cambiando. Sono piccoli segnali che rivelano un progressivo cambiamento di mentalità dei nostri produttori, un passo avanti che al tempo stesso sembra recuperare e rivalorizzare qualcosa di buono che c’era indietro e che rischiavamo di perdere.

 

Per prima cosa abbiamo rilevato un rallentamento nel dominio della tecnica, quasi ci stesse avviando alla fine di un ciclo e, forse, di una illusione. La ricerca e le nuove tecnologie hanno cambiato profondamente (e in meglio) il nostro vino ed il susseguirsi di risultati straordinari ha diffuso la convinzione, per lo più inconscia, che in cantina si potesse fare e ottenere tutto.

Parallelamente, anche sulla spinta di una sempre più diffusa coscienza ecologista, si è cominciato a rivolgere maggiore attenzione al vigneto, non solo per avere uve migliori (cioè unicamente finalizzate ad ottenere vini con un determinato profilo gustativo) ma per avere vigneti migliori, più sani e più “puliti”.

 

DOBBIAMO LIBERARE LO SANTO SEPOLCRO!

Ovviamente, anche in questo campo non mancano i toni da crociata, gli integralisti impazzano, gli opportunisti dilagano cambiando casacca ad ogni piè sospinto. Però, sentir parlare più spesso di tecniche agricole, lotta integrata, risparmio energetico, concimazioni naturali, ed un po’ meno di enzimi, formule chimiche e criomacerazione, allarga il cuore e fa bene sperare per il futuro. Un futuro che già fa capolino nelle bottiglie delle ultime vendemmie, con vini meno estremi, meno palestrati, più apprezzabili per equilibrio ed armonia che per forza e dirompenza.

 

Ad un’analisi superficiale questo potrebbe sembrare un sorta di ritorno al passato, un recupero delle tradizioni, una rivincita della tipicità. In realtà, una volta i vini di un territorio si assomigliavano tutti perché era prevalente quel che dava spontaneamente il vigneto rispetto a quello che il vignaiuolo avrebbe voluto ottenere. La grande rivoluzione della conoscenza tecnica e tecnologica ha messo i produttori nella condizione di affrancarsi dalle strade obbligate dell’ignoranza offrendo loro una quantità smisurata di percorsi alternativi che si sono concretizzati in vini che presentano una ampia varietà di profili gustativi pur provenendo dallo stesso territorio, dallo stesso vitigno e dall’applicazione dello stesso paradigma enologico.

 

L’avvento di nuove tecniche ha scardinato i secolari parametri della qualità, ovvero grado alcolico e dolcezza, e ad un lungo periodo di chiaroscuro è succeduto quello del colore, delle sfumature, dell’emergere dei dettagli. Così, un vino “nuovo” è finito sulle tavole di consumatori “vecchi”, assolutamente non pronti ad apprezzare questa nuova era gustativa ed è ovvio, normale ed anche giusto, che da subito abbiano prevalso quei vini che si giocavano la partita sui colori forti, sui contrasti cromatici, sui timbri piuttosto che sui toni. Giocavano quelle carte e vincevano perché si rivolgevano ad un pubblico gustativamente rozzo, che veniva da secoli di vini piatti che apparivano eccellenti quando erano pieni, rotondi, pastosi.

L’ETERNA LOTTA TRA ORCHESTRA E FANFARA

 

Anni di ubriacatura sensoriale, con fiati e percussioni prevalenti sugli archi, hanno però consentito di risvegliare i palati, esercitarli e raffinarli.

Ed il processo di crescita porta inevitabilmente con se’ un processo di conoscenza: in tutta la storia dell’umanità non si è mai scritto, parlato, comunicato e dibattuto di vino come negli ultimi 30 anni, e questo ha creato un nuovo consumatore, più informato, più attento, più curioso, aperto a nuove esperienze e meglio corazzato verso le prese in giro.

 

Questo tendere alla “normalità” che abbiamo rilevato nelle ultime annate ci sembra soprattutto un convergere del mondo della produzione e quello del consumo verso traguardi di qualità sostanziale, la ricerca di un abito che non solo sia bello e faccia colpo, ma che sia anche pratico e comodo, che indossi in pubblico ma non hai problemi a tenerlo addosso anche quando rientri a casa.

 

Troppe volte abbiamo visto vini stappati con orgoglio al ristorante e mai bevuti in casa a vantaggio di coca(cola) e aranciate. Non c’è dubbio che il futuro si sta avviando verso le strade dell’eleganza, dell’armonia e dell’equilibrio, dei sussurri che soffocano le grida, dei gorgheggi che prevalgono sui do di petto. Un futuro che non ci farà bere di più ma bere più spesso. Se fosse così, riusciremmo a fare contenti anche i catastrofisti della “tolleranza zero” senza privarci di questi sorsi di cultura, così perfetti per allietarci la vita.