Il vino si fa nella vigna. No, il vino si fa in cantina. La vecchia diatriba probabilmente non troverà mai soluzione e noi vogliamo contribuire ad intorbidire le acque aggiungendo una terza variabile di non poco conto: il vino si fa al mercato. Ovvero: il profilo gustativo del vino che noi beviamo è determinato in maniera prevalente dal mercato, piuttosto che dalla vigna o dalla cantina.

Ovviamente, questo è vero in tempi relativamente recenti (ma non troppo). Per millenni, infatti, il mercato, più sensibile alla componente alcolica che a quella gustativa, ha recepito quello che le aree di produzione di riferimento gli propinavano. Solo con lo sviluppo dei mezzi di trasporto il mercato ha potuto confrontare vini che, a parità di apporto alcolico, si esprimevano con profili gustativi diversi. Ecco quindi nascere i primi grandi miti dei vini di Rodi, Cipro, Lesbo e Chio, e, con essi, il tentativo dei produttori locali di piegare la vigna e la cantina a generare vini quanto più somiglianti a quelli.

Tutta la storia del vino può essere letta come un continuo rincorrersi di vigna e cantina da una parte, e mercato dall'altra, dove i primi hanno spesso vinto le batterie ed il secondo le finali.

L'affermazione, ce ne rendiamo conto, può apparire azzardata, ma basteranno poche considerazioni per supportarla ampiamente.

Non è certo confutabile che, sia a livello nazionale che internazionale, il profilo gustativo vincente, la massima considerazione ed i prezzi più alti, sono riconosciuti ai vini rossi invecchiati in contenitori di legno (Brunello, Barolo, Barbaresco, Bordeaux, Bourgogne, Rioja, Cabernet californiani, ecc., ecc.). Orbene, per millenni il vino rosso è stato completamente diverso da come appare quello oggi premiato dal mercato. Non era così finché è stato prodotto dove le condizioni ambientali erano assolutamente e costantemente favorevoli allo sviluppo vegetativo della vite, ovvero lungo le sponde del Mediterraneo. Lì, nessuno si è mai posto il problema di "invecchiare" il vino: pur con alti e bassi, ogni vendemmia era buona e garantiva al viticultore una quantità di prodotto sufficiente per arrivare al raccolto dell'anno successivo.

Quando la coltivazione della vite si è diffusa più a nord, invece, sono nati i problemi. L'inclemenza del tempo non garantiva certo vendemmie regolari e, spesso, le cattive annate (ovvero quelle in cui il raccolto era pressoché nullo, oppure caratterizzato da scarsissima maturazione delle uve) si ripetevano per due, tre, quattro anni successivi ed il primo problema del produttore (e del mercante) era quello di conservare il vino delle annate buone e abbondanti per poterne disporre in quelle in cui sarebbe mancato. L'unico contenitore disponibile allora, la botte di legno, aveva anche il vantaggio di trasferire una parte dei suoi tannini al contenuto, contribuendo ad accrescerne la struttura, in genere esile nei vini prodotti in latitudini settentrionali.

Il profilo gustativo risultante da questa semplice e, per qualche verso, casuale alchimia, era completamente diverso da quello usuale nei territori "naturalmente vocati", ovvero sulle sponde del Mediterraneo. Era sicuramente innaturale (il sentore del frutto era minimizzato se non assente), artificioso (non si poteva certo stabilire un nesso tra i sapori del legno e quelli del succo racchiuso nell'acino), non beverino (Noé si ubriacò di mosto appena svinato: se avesse stappato uno chateau bordolese non avrebbe nemmeno finito la bottiglia). Eppure, questo vino così lontano dalle istintive attese gustative di ogni consumatore è diventato lo standard mondiale della qualità.

La ragione di questo curioso fenomeno è tutta nelle pieghe di quella bizzarria umana che si chiama "mercato".

I vini "mediterranei", infatti, abbondanti tutti gli anni, costantemente di buona qualità, hanno avuto il difetto di trasformare in "normale" qualcosa che in altre aree sarebbe stato "eccezionale".

Quel che a Pachino si produceva tutti gli anni, insomma, a Bordeaux lo si otteneva sì e no ogni quattro. Il primo lo si beveva con noncuranza, magari portando la bocca direttamente all'orlo della brocca, mentre il secondo veniva servito con un contorno di cure e riti degni di una reliquia. Il primo "finiva quando finiva", il secondo veniva messo da parte per poterne godere anche l'anno successivo, e poi l'altro ancora, ed anche un decennio dopo.

E chi beveva il primo ne godeva lì per lì, con la mente rivolta al prossimo bicchiere, mentre il fruitore del secondo sovrapponeva al piacere del bere una serie di godimenti mentali, in cui aggettivi come rarità, esclusività e privilegio finivano per condizionare pesantemente (esaltandolo) il profilo gustativo di quel vino.

Una volta bevuto, la mente si rivolgeva all'indietro, cercando di rivivere quel momento "magico" che veniva amplificato con i racconti fatti a quelli che - sventurati - non avevano potuto essere partecipi dell'evento. Infine, il primo consumava la sua vita nelle osterie e sulle tavole della gente comune, il secondo prendeva la strada delle corti regali, allietava i banchetti dei nobili e della ricca borghesia.

Il sedimentarsi di queste dinamiche ha prodotto due "deformazioni" fondamentali. Nei consumatori, il riflesso condizionato che a quel profilo gustativo corrisponda l'alta qualità. Nei produttori, l'ineluttabile convinzione che per competere nella fascia alta del mercato bisogna produrre vini rossi a lungo invecchiamento.

Ecco quindi che i Toscani si sono ingegnati di invecchiare il beverino Chianti trasformandolo in un austero rosso "Riserva", e poi, in una zona che dà nove annate buone su dieci, hanno inventato di sana pianta il Brunello, con un obbligo di invecchiamento in legno così estremo e stressante (un vero controsenso enologico) che possono superarlo solo le quattro-cinque vendemmie eccezionali (ma eccezionali veramente!) di ogni decennio. E, scendendo verso sud, dal Conero al Sannio, dal Salento al Vulture, agli assolati vigneti di Sicilia e Sardegna, è tutto un dilagare di Riserve e Millesimati, spesso straordinari e degni di competere con gli storici iniziatori di questa avventura enologica e gustativa.

Per tutti, però, checché ne dicano agronomi, winemaker e direttori marketing, vigneto e cantina hanno giocato un ruolo marginale: il mercato ha acceso le sue luci abbaglianti ed è bastato il loro riflesso per piegare ai suoi voleri le vocazioni del territorio e le consolidate tecniche vinicole tradizionali.

 

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