Visto da fuori, il mondo del vino sembra un'oasi di felicità, un eden dove si intrecciano festosamente, natura, mondanità, cultura, gioia di vivere e piaceri materiali.
Al di là degli atteggiamenti dei suoi protagonisti, spesso sinceri e vissuti con intensa partecipazione, il mondo del vino è un microcosmo in cui la dimensione della maggior parte delle aziende a stento riesce a garantire fatturati che ne giustifichino l'esistenza. Ne è riprova il fatto che le aziende vinicole italiane con un fatturato superiore a 150 milioni di Euro si contano sulle dita di una mano, dimensione che in altri settori, come la chimica, la meccanica, il tessile o la cosmesi, rappresenta a malapena la soglia di ingresso.

Questa congenita struttura lillipuziana costringe i produttori vinicoli ad inventarsi giorno per giorno artifizi e compromessi che permettono loro di perseguire gli obiettivi che si sono posti riducendo al minimo gli investimenti. E così finiscono per improvvisarsi, di volta in volta, grafici, pierre, copywriter, addetti stampa.

Dei tanti ausili, quello cui, inesorabilmente, sono costretti a rinunciare, è la pubblicità, ovvero il metodo più diretto, rapido ed efficace (ma anche più costoso) per presentarsi ai consumatori e sollecitarli all'acquisto dei propri prodotti. Rigirate i bilanci come vi pare (anche quelli a 7 e 8 zeri) ma i soldi per la pubblicità non saltano fuori, nemmeno comprimendo ai limiti dell'asfissia tutte le altre voci di spesa.

Ecco quindi che ad ogni produttore, piccolo, medio o grande, non resta altra alternativa che tentare di raggiungere il pubblico dei consumatori attraverso gli articoli e le recensioni dei giornalisti specializzati. Gli esiti di questi sforzi dipendono da innumerevoli fattori, originalità, creatività, perseveranza, aggressività, simpatia del produttore, ma anche intelligenza, professionalità, serietà, supponenza, arroganza del giornalista. Il fatto è che, da un po' di anni (ovvero da quando le etichette di fascia alta - quelle giustamente prese in considerazione dai critici enoici - si sono moltiplicate a dismisura) i produttori hanno così bisogno di quelle quattro righe di citazione che si ritrovano nella condizione di rispondere ciecamente a qualunque sollecitazione provenga da quella parte.

 

I giornalisti, che sono uomini come gli altri, soggetti alle passioni, alla pressione delle mode socio-culturali e dei birignao tecnologici (da un po' di tempo, soprattutto a questi ultimi), a ondate partono per la tangente e trasformano le loro preferenze del momento in diktat perentori cui diventa difficile sottrarsi, soprattutto quando si hanno le cantine piene.

Così, negli ultimi decenni, abbiamo assistito via via alla criminalizzazione delle uve ben maturate e all'esaltazione dei vini ad alta acidità, poi alla consacrazione dei "vitigni nobili" ed alla glorificazione della barrique, quindi all'epopea delle vendemmie tardive e poi all’idolatrazione dei vitigni autoctoni.

A ciascuna di queste "campagne" ha corrisposto una riposta più o meno forte (ma, in genere, decisamente forte) dei produttori che ha determinato sensibili effetti (per lo più positivi) soprattutto nel profilo gustativo dei vini, ma anche in aree al di fuori della percezione del consumatore, come le normative vitivinicole e la redazione dei disciplinari dei vini Doc e Docg. Al riguardo, basti pensare che per tutti gli anni Ottanta abbiamo assistito ad un rincorrersi di revisioni dei disciplinari di produzione finalizzate prima di tutto all'innalzamento per legge dell'acidità totale, quindi all'introduzione di Cabernet, Chardonnay, Sauvignon blanc e così via, anche in zone dove non se ne era mai vista traccia, per poi concedere, dall'inizio degli anni Novanta in poi, un "lieve sentore di legno" a qualunque vino (implicita autorizzazione ad utilizzare la barrique). Subito dopo, un’altra ondata, è quella che introduceva la vendemmia tardiva in quasi tutte le Doc, fossero esse nuove o revisionate (in qualche caso anche rottamate).
A ruota, si sono poi affacciati alla beatificazione della stampa i vini ottenuti da vitigni autoctoni, alcuni così autoctoni che è stato necessario reimportarli dai luoghi dove erano emigrati, poi quelli affinati sui fondali degli abissi marini, quelli in anfora, gli “orange” e, infine, i gloriosi vini “naturali”, ovvero quelli abbandonati dalla mamma vicino ad un cassonetto appena nati e che, nonostante questo, sono riusciti a conquistare una bottiglia dentro cui ripararsi, con tanto di etichetta (e meno male che c’è, così uno sa come regolarsi e prendere le necessarie precauzioni).

Tutto questo, però, non ci deve far pensare che i giornalisti siano degli sconsiderati. Nessuno di loro si è improvvisato tecnico (anche se spesso, dai loro scritti, emerge quanto sia grande la tentazione...). In linea di massima, non hanno fatto altro che il loro mestiere. Ovvero, hanno scovato qualche produttore che, coadiuvato da tecnici illuminati, ha ottenuto risultati lusinghieri ed innovativi e ne hanno parlato. Il punto di crisi è nella testa dei suoi concorrenti che, alla ricerca disperata di espedienti per trovare sbocchi di comunicazione, hanno messo in pratica la facile equazione "X ha scritto bene di un vino in barrique, in anfora o sottomarino: ora produco anch'io un vino in questo modo e X ne scriverà". Un'equazione che, seppur sbagliata nella sostanza, per molto tempo ha dato la sensazione di funzionare ed ha innescato il meccanismo che ha portato ai risultati descritti in precedenza.

 

Pur non nascondendoci le negatività (la più grande è di tipo filosofico: l'uomo del terzo millennio dovrebbe agire spinto dalla ragione e dalla passione, non da un gregge di pecore) dobbiamo ammettere che il saldo di questa storia è sostanzialmente positivo.
Oggi, nella maggior parte dei casi, ci possiamo godere vini più profumati, più intensi, ricchi di sapori che senza questa ondata di innovazioni non ci saremmo mai sognati, e vini da dessert in cui il dolce non è più il punto di arrivo, ma una porta spalancata verso un mondo di sensazioni inimmaginabili fino a trenta anni fa.

 

Le negatività possono essere riassunte in una certa tendenza all'omologazione (ma verso l'alto, per fortuna) ed in una dissennata stagione in cui anche i più bravi ed onesti erano costretti ad innalzare artificialmente l'acidità dei propri vini per poter rientrare in quei parametri assurdi che loro stessi, in ossequio ad una moda, avevano voluto sanciti per legge.

A molte di queste negatività si sta pian piano ponendo rimedio ma qualcuno mi deve spiegare come si risolverà l'altro problema incombente: chi si berrà l'incessante ondata di “novità" che sta invadendo il mercato? Io continuo a vederle solamente nelle degustazioni per addetti ai lavori e sugli scaffali delle enoteche più raffinate. Le vedo, ma non si muovono.

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